Attesa da decenni e preparata nei lavori della Commissione cultura al Senato, il 3 novembre 2016 è stata approvata in maniera definitiva la nuova legge sul cinema, Disciplina del cinema e dell’audiovisivo.

I punti della riforma – nel dettaglio: 60% in più di investimenti e autofinanziamento, sostegno ai giovani autori, digitalizzazione e cinema nelle scuole, non più censura di Stato, incentivi per chi investe in nuove sale e aiuto a quelle storiche, Consiglio superiore per il cinema e l’audiovisivo e inserimento dell’audiovisivo nel Fondo di garanzia – si riassumono, essenzialmente, nella previsione della creazione di un fondo completamente autonomo per il sostegno dell’industria, determinato dagli introiti erariali. In particolare, l’articolo 1 affida allo Stato «la promozione e il sostegno del cinema e dell’audiovisivo, quali fondamentali mezzi di espressione artistica, di formazione culturale e di comunicazione sociale, che contribuiscono alla definizione dell’identità nazionale e alla crescita civile, culturale ed economica del paese, promuovono il turismo e creano occupazione». In un recente seminario di studio ed approfondimento Valori e limiti della legge cinema: temi, questioni e opportunità per archivi e cineteche, tenutosi presso l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico il 27 gennaio 2017, esperti, studiosi e lavoratori del settore hanno avuto modo di approfondire alcuni aspetti della nuova Disciplina del cinema e dell’audiovisivo in relazione alle attività delle cineteche e degli archivi audiovisivi italiani, i cui patrimoni sono particolarmente ricchi, diversificati e disseminati sul territorio del nostro Paese.
Ritengo opportuna qualche riflessione su tale normativa, tenendo anche conto delle diverse opinioni che mi è capitato di leggere e delle varie posizioni emerse a riguardo proprio nel corso dell’iniziativa dell’AAMOD, concepita come momento di discussione a più voci, nonché di apertura di un confronto istituzionale.

Il dibattito è a tutt’oggi vivo e vivace, e si arricchisce continuamente di opinioni e posizioni varie, ma in linea di massima, dopo alcune iniziali entusiastiche accoglienze, con sempre maggiore evidenza stanno venendo alla luce soprattutto i limiti della legge, diretti, diversamente da come possa apparire ad una lettura superficiale ed acritica del testo normativo, alla cessazione di un chiaro e convinto sostegno pubblico alle politiche di educazione dello spettatore, e dunque a indebolirne l’atteggiamento critico e diminuire il valore formativo del sistema della comunicazione audiovisiva. Insomma la tendenza è alla mercificazione della cultura che deve essere specificamente di marketing: il cinema è assimilato ad una industria come un’altra e l’intervento pubblico non sostiene più l’opera e la creazione artistica. L’istituzione di un fondo per il cinema e l’audiovisivo assegna in modo automatico l’82% delle risorse derivanti dal finanziamento pubblico: dunque, alla luce della normativa, per lo Stato non ha importanza il valore artistico dell’opera che un regista intende produrre, ma contano unicamente gli incassi delle opere precedenti distribuite dalla medesima impresa, a scapito della produzione indipendente. Il MiBACT acconsente, in pratica, che le case di distribuzione acquistino all’estero anche prodotti, culturalmente scadenti, che hanno come unico requisito la previsione di fare più cassetta, di incassare più soldi al botteghino, deprivando il pubblico italiano della conoscenza di intere grandi cinematografie, apprezzate ed ammirate in tutto il mondo, dal nuovo cinema turco a quello giapponese, vietnamita, greco e via discorrendo.

Per giunta, per la prima volta dal dopoguerra, proprio spostando il peso dei finanziamenti verso quelle realtà economiche che maggiormente traggono utili dalle produzioni cinematografiche, la legge cinema non riconosce adeguatamente il giusto peso culturale dell’associazionismo, dai circoli del cinema ai cineforum alle cineteche, agli archivi e alle biblioteche sparsi in tutto il territorio nazionale, tutti luoghi di socializzazione e crescita formativa di intere generazioni, che hanno rafforzato di conoscenza e sensibilità il mondo del lavoro, della cultura, della scuola e della politica.

L’articolo 29 assegna 10 milioni di euro annui per la digitalizzazione, per 3 anni, suscitando il problema della conservazione di questo formato, che richiede di sviluppare la ricerca sulle tecnologie di recupero. Il formato digitale, per la facilità di uso e diffusione, si configura come un potente strumento di democrazia in quanto coopera alla crescita civile e democratica del pubblico. Sorge quindi la necessità di una disciplina sulla digitalizzazione, ad esempio per stabilire uno standard per i formati, ad oggi caratterizzati da una pluralità che crea disordine e incomunicabilità. Attualmente infatti esiste la possibilità di digitalizzare un documento audiovisivo in modalità SD, HD, full HD, 4K e creando differenti tipologie di file (DVD che restituiscono un film a 25 fps; Blue-Ray che restituiscono un film a 24 fps…). Si rende dunque necessaria la definizione di linee-guida che determinino il ruolo delle piattaforme-web e specifichino le regole per la catalogazione e fruizione dei contenuti digitali.

La legge evidenzia la necessità di un soggetto in grado di coordinare il lavoro delle cineteche pubbliche e private. Tale opera di coordinamento viene affidata alla Cineteca nazionale, nell’accezione di “Cineteca dello Stato”, che tuttavia non gode di condizioni finanziarie adeguate né è dotata di personale sufficiente anche solo a recuperare il materiale in nitrato d’argento in proprio possesso.
E non è tutto: i 400 milioni di euro previsti dalla legge non sono destinati solamente al sostegno ed al rilancio del cinema italiano, ma vanno ripartiti in tre distinti ambiti: “cinema, audiovisivi e videoludico”, cioè videogiochi, sicché la cifra dedicata risulta, di fatto, nettamente inferiore rispetto alle reali esigenze del settore. Come se non bastasse, si tratta di un finanziamento a termine relativo ad un limitato e “limitante” bilancio triennale (2017-2019): la cifra assegnata ai fini della digitalizzazione è disponibile per 3 anni, quella rivolta al mantenimento delle sale per 3+2 anni. A proposito di digitalizzazione, inoltre, non si può dimenticare che, se da un lato il dibattito punta a come conservare il digitale, dall’altro riconosce che il digital non risolve l’inevitabile “agonia” della materialità, anzi è inconfutabile che pellicola e carta reggano meglio nei secoli all’ingiuria del tempo.

Inoltre gli interventi di digitalizzazione non possono essere casuali e sporadici, come sembra prevedere la legge, ma andrebbero inquadrati nell’ambito di un progetto di grande respiro che potrebbe realizzarsi solo mediante un’azione comune e concertata tra archivi e cineteche, finalizzata alla formazione del personale tecnico e alla conservazione delle opere, insomma attraverso un piano straordinario e ben congegnato per la digitalizzazione dell’intero patrimonio cinematografico e audiovisivo, compresi anche i film di famiglia e amatoriali.
Altra tematica di interesse è la che la digitalizzazione non presuppone, né deve presupporre, come erroneamente può avvenire, la scomparsa dell’analogico: la fruizione del cinema in pellicola nel Novecento ha rappresentato una importantissima esperienza culturale; in altre parole, la cultura viene veicolata da una data tecnologia. Ed è fondamentale che tale patrimonio culturale venga trasmesso non solo attraverso il digitale, ma proprio attraverso l’esperienza della proiezione in pellicola. La copia digitale assume così il valore di “momento intermedio” per un ritorno alla pellicola in 16 mm e 35 mm.
Specialmente per il patrimonio audiovisivo è, di fatto, impossibile scindere il momento del recupero-restauro dalla valorizzazione, ed è essenziale documentare i materiali, ossia corredarli di testi relativi e delle storie orali che rendono accessibili i film. In altre parole, gli audiovisivi vanno “contestualizzati” e messi in condizione di trasmettere i valori storici, culturali e di documentazione che conservano.
Il cinema andrebbe allora riconosciuto come un “sistema”, una sorta di “organismo vivente”: se si produce un film è perché c’è un pubblico a cui esso è destinato, allora il film va considerato prodotto artistico e opera dell’ingegno umano, prima ancora che merce.
La nuova legge sul cinema, purtroppo, sembra ancora ben lungi dal considerare questi aspetti adeguatamente e, soprattutto, con il dovuto spirito critico, ma pare più facilmente assecondare una logica diametralmente opposta all’accrescimento e alla diffusione della cultura nel nostro Paese.

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