Dato s. m. Come si colloca una parola insieme così generica e quadrata, permeata da un algore scientista, nell’àmbito di una disciplina di radice e vocazione umanistica? In realtà, l’archivistica ha sempre implicato una tensione razionale, indossando un abito deontologico scientifico. L’obiettivo della disciplina è il trattamento di dati archivistici, cioè oggetti che vanno individuati, catalogati, organizzati e studiati nella loro realtà di documenti prodotti come prova e strumento dell’attività umana, collocati all’interno di una ordinata dimensione spaziale, tramite un sistema di ricerca gerarchizzata.

Il dato, cioè, in quanto ha valore documentale e alto potenziale conoscitivo, può essere pubblico, ossia conoscibile da tutti, oppure a conoscibilità limitata, vale a dire che può essere noto soltanto a certi soggetti o categorie di soggetti, in base a leggi o regolamenti. Questa partizione di tipo giuridico non occulta la sostanza etico-filosofica che la parola dato implica.

Dato ha un’etimologia tanto semplice da nascondere tutta la complessità e ampiezza concettuale che contiene. Viene dal latino dătu(m) ‘(ciò che è stato) dato’, participio passato del verbo dăre. Ciò che viene dato rappresenta un campo della realtà virtualmente enorme. Dunque, per il nome dato si è sempre cercato, nel corso della storia e della storia della nostra lingua, di trovare contenuti semantici che lo ancorassero a fatti, a elementi tangibili e verificabili o sperimentabili, sia nella cultura umanistica sia nella cultura scientifica.

A partire dal tardo Cinquecento, si precisa il significato di dato come ‘elemento offerto o acquisito o risultante da indagini, e usato per ulteriori ricerche e indagini con precise finalità’. Nella lingua comune tale accezione può avere contorni generici e sfumati (non ci sono dati sufficienti per valutare la gravità della situazione), ma può anche, come dire, rinvigorirsi artificialmente con gli anabolizzanti della retorica, come in questo passo tratto da Diuturna: scritti scelti ed annotati per la gioventù (1929) di Benito Mussolini (1883-1945): «C’è un dato incontrovertibile che attesta la vitalità prorompente del movimento fascista: ed è il proselitismo. Nessun altro partito può competere con noi».

Va notato che in epoca moderna, dalla fine del Settecento, la lingua assume il dato come elemento fondativo razionale della realtà nella locuzione dati di fatto (usata anche al singolare), che individua gli elementi certi, sui quali ci si basa per affacciare ipotesi, formulare giudizi, ecc.: «Il Commissario strappò il foglio dalla macchina e lo gettò nel cestino. Non posso scrivere le sue preferenze, qui devo stendere un verbale su dei dati di fatto, su dei fatti. Se ci sono questi fatti li scriviamo, siamo qui per questo, altrimenti abbiamo scherzato» (Luigi Malerba, (1927-2008), Il serpente, 1965).

Ma, poiché lo stesso concetto di dato si presta a una continua oscillazione tra determinazioni più specifiche e profili più ampi, la locuzione dato di fatto viene usata anche in modo più generico, all’interno di cornici semantiche più familiari, come in questo passo tratto da Danubio (1987) di Claudio Magris: «L’amore può venire e passare, il matrimonio si può sciogliere; essere fratelli è un dato di fatto, epico ed oggettivo come i lineamenti o il colore dei capelli». Negli anni Settanta del Novecento, per influsso del linguaggio filosofico, prende piede la locuzione dato positivo, quello che si fonda su evidenze concrete e sperimentabili, reali ed effettive (i dati positivi della ricerca storiografica), quasi a soppiantare dati di fatto nella ricerca di un’espressione più univocamente scientifica.

A partire dalla temperie positivistica ottocentesca, tra le scienze, la statistica assume il dato come un elemento fondamentale. Il dato statistico è la ‘misura di un fenomeno collettivo risultante dalla rilevazione dei fenomeni individuali che lo compongono’: «Secondo i dati del censimento del 1991 il tasso di disoccupazione totale della popolazione di Bagnoli quell’anno era stato superiore al 42%» (Ermanno Rea (1927-2016), La dismissione, 2002). In margine, si noti il successo anche giornalistico della formula sintetica dati ISTAT, per indicare i dati statistici (da esaminare e magari incrociare tra di loro) prodotti dall’Istituto nazionale di statistica (fondato nel 1926), l’ente pubblico di ricerca principale produttore di statistica ufficiale per l’Italia.

L’informatica, da almeno sessant’anni, ha conosciuto un impiego massiccio del termine dato, inteso come ‘elemento di un’informazione costituito da simboli’, costruendovi intorno un’estesa mappa lessicale e semantica, segno dell’affermarsi di una nuova civiltà tecnologica: banca dati (1966), centro elaborazione dati (1971), flusso di dati (1971), lettore di (dei) dati (1984), dati strutturati (1987), compressione dei dati (1990).

Le tendenze neopositivistiche presenti in settori e correnti del pensiero scientifico contemporaneo tendono in qualche modo a presentare il dato come un dato di fatto. In quanto descrizione codificata di un fenomeno, il dato dipende da un codice e un formato specifici. Tutto ciò sembra di per sé assicurare all’informazione che si può ricavare dall’elaborazione dei dati uno statuto aprioristico di veridicità. In realtà, tutta l’epistemologia  e la filosofia noceventesca, ragionando tra l’altro sugli effetti di relativizzazione del reale e delle sue codificazioni, prodotti proprio dalle grandi acquisizioni della scienza (dalla fisica alla genetica), non smettono di ricordarci che il dato è un costrutto umano, per definizione utilmente deperibile.

Raccontava il filosofo Giovanni Reale (1931-2014): «Dostoevskij, che è anche un grande filosofo, diceva che il bene e il male – lo dimostra ne I fratelli Karamazov – derivano solo dalla libertà. Durante una conferenza, in una sala piena di 600 persone, un docente di matematica intervenne e disse che la verità si raggiungeva solo con la matematica, i suoi dati e le sue formule. ‘Ma lei quando litiga o parla con sua moglie usa formule matematiche?’, gli chiesi. Il prof se ne andò indignato e il moderatore, il giornalista Armando Torno, mi spiegò che era appena uscito da una separazione familiare molto dolorosa».

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