La vita degli archivi è da sempre strettamente intrecciata al fuoco. Difesi, assaliti o consegnati alle fiamme gli archivi recano nella loro storia millenaria le tracce di un rapporto ancestrale col loro primo nemico in natura col quale, paradossalmente, condividono molti tratti.

Tratti che hanno contribuito, nella percezione umana, a confinarli entrambi, per certi versi, nell’ambito della sacralità: le difficoltà e il potere legati alla loro conservazione, la loro pervasiva capacità di prodursi spontaneamente, l’apparente vita propria, l’eterogenesi dei fini. Una frequentazione, quella fra archivi e fuoco, così intensa e conflittuale tale da generare una vera e propria mitopoiesi archivistica delle fiamme, causa primigenia dei molti “vuoti” della documentazione del passato, non altrimenti spiegabili se non chiamando in causa, per dirla con Marc Bloch, «chi sa quale imperscrutabile volere degli dei».

Lo aveva notato, en passant, un nume tutelare degli studi archivistici, Giorgio Cencetti, lamentando, a proposito della scarsa qualità delle introduzioni degli inventari archivistici, la tendenza ad elencare, quasi fosse un elemento costitutivo degli archivi, «l’immancabile elenco cronologico completo degli incendi che, a sentire i cronisti e i pappagalli che li ripetono, avrebbero distrutto tutte le carte anteriori a una certa epoca». Lo ha notato più di recente un archivista raffinato, Giuseppe Chironi, troppo presto mancato alla nostra comunità. A proposito delle dinamiche all’origine delle rade sopravvivenze documentarie di età medievale e del boom conservativo dell’epoca immediatamente successiva, Chironi ha rilevato la genesi di «una sorta di “legenda ignea” riguardante la grande maggioranza degli archivi diocesani italiani, apparentemente colpiti da calamità e disastri più o meno nello stesso periodo, tra la fine del medioevo e gli inizi dell’età moderna».

Si sa, ad alimentare miti e leggende sta la cronaca fitta e minuta di eventi che, proiettati in un tempo lontano, finiscono con l’assurgere a giustificazione plausibile di fenomeni assai più complessi. E la cronaca, non sempre affidata alla storia degli archivi, in special modo giudiziari, è ricchissima di notizie di incendi e devastazioni come quella patìta nei giorni scorsi dalla cancelleria centrale penale del Tribunale di Milano. Dolosi o meno, non mancano esempi che si collocano a ogni altezza cronologica: uno dei più famosi, per la sua portata materiale e simbolica, risale al luglio 1343 quando la rivolta che cacciò da Firenze il duca di Atene Gualtieri di Brienne, signore della città per pochi mesi, ebbe il suo clou nel rogo delle scritture reperite nel palazzo del podestà e in quello della Camera del comune, come ricostruito alcuni anni or sono da Amedeo De Vincentiis. Mossi da intenzioni analoghe a quelle dei rivoltosi fiorentini, ma con esiti, seppur simili, di certo non investiti a posteriori di evocativi significati simbolici, la banda dei fratelli Musso e Soria aveva depredato e incendiato in una notte di luglio del lontano 1734 l’archivio del Tribunale di Piozzo, piccolo centro del cuneese, finendo condannata dalla giustizia senatoria.

La distruzione dolosa delle carte e, con esse, delle prove e delle pendenze rappresentatevi non è merce rara nella cronaca giudiziaria anche dello Stato postunitario. E non mancano, a tal proposito, esempi di una certa rilevanza (e ricorrenza): nel luglio 1921 un incendio doloso distrusse i locali dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Milano e con esso gran parte dei fascicoli dei procedimenti in corso, compreso quello relativo all’attentato anarchico al Teatro Diana, al centro di una lunga e controversa vicenda giudiziaria. Un analogo uso politico (di segno opposto?) del fuoco applicato agli archivi fu anche quello che nella cancelleria della Corte d’assise di Milano nell’ottobre 1975 distrusse gli armadi contenenti i fascicoli relativi  ai neofascisti Loi e Murelli, imputati dell’assassinio dell’agente di p.s. Antonio Marino.

Se il dolo è dunque ben consapevole del valore degli archivi della giustizia, fatalità e incuria sembrano invece ignorare con pervicacia la loro imprescindibile importanza, tanto per la tutela dei diritti dei cittadini quanto per la ricostruzione della storia dei contesti dei quali furono espressione. Non è stato, infatti, soltanto il fuoco appiccato intenzionalmente a mettere in pericolo o condannare all’oblio una porzione così importante del nostro patrimonio culturale, quantitativamente debordante e, ce lo dicono i fatti, spesso fatta oggetto di attenzioni non proprio costanti. La cronica insufficienza di spazi degli archivi di Stato a ricevere i versamenti della documentazione giudiziaria, nonostante gli sforzi – non sempre omogenei a dire il vero su tutto il territorio nazionale – si è aggravata da almeno un trentennio, da quando cioè, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale del 1989, è aumentata a dismisura la produzione documentaria e, con essa, non la capacità dei palazzi di giustizia e degli archivi di Stato di farvi fronte. Quest’ultima è stata messa ancor più a dura prova dalle soppressioni di numerosi uffici giudiziari nel 1998 e nel 2012, alle quali non sempre ha potuto far seguito il versamento negli archivi di Stato delle carte, in molti casi risalenti anche all’età preunitaria, lasciate abbandonate nelle antiche sedi. La rilevanza di tale documentazione, nel suo complesso, quale presidio dei diritti e quale fonte per lo studio di ogni aspetto della società italiana, dovrebbero indurre alla massima sollecitudine nell’approntare soluzioni efficaci, dal punto di visto logistico e da quello culturale: rimedi non sempre adeguati appaiono infatti l’applicazione acritica di politiche di scarto radicali, edulcorata da ipotesi di digitalizzazione integrale di questo o di quel fondo, e la pur opportuna salvaguardia soltanto di alcuni procedimenti giudiziari che, monumentalizzati, rischiano concretamente in futuro di rappresentare delle cattedrali nel deserto nel panorama conservativo dell’Italia repubblicana.

Urgono rimedi affinché, come è stato scritto alcuni giorni fa sul frequentato gruppo Facebook Archivistica attiva, non ci si limiti a tributare a questa documentazione «un’importanza sistematicamente postuma» classificandone fra qualche anno, aggiungerei, la dispersione nelle categoria degli “spurghi inconsulti”, particolarmente frequentata – così come quella delle “legende ignee” – nella storia degli archivi.

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