Dopo una serie di complessi esperimenti e tentativi, l’«Archivio generale veneto» venne stabilito nel 1815 da Francesco I d’Asburgo-Lorena, imperatore d’Austria e re del Regno Lombardo-Veneto.

Esso raccoglieva in un’unica istituzione la più che cospicua documentazione prodotta nei molti secoli della sua esistenza dall’estinta Repubblica di Venezia, travolta dalle armate francesi nel 1797, oltre a quella dei monasteri e confraternite di devozione e di mestiere soppressi in epoca italica da Napoleone. In prospettiva, vi sarebbero confluite anche le carte originate dai nuovi organi di governo.

A causa del continuo stato di guerra e dell’alternarsi di sovranità straniere sul territorio veneto, nei decenni precedenti non erano però mancate gravi spoliazioni, che avevano lasciato nella costernazione gli archivisti, costretti a subirle impotenti. La Serenissima, lo si è detto, era cessata nel maggio 1797. Le aveva tenuto seguito la cosiddetta «Municipalità democratica», costituita sotto l’egida francese, che tuttavia presto – ceduta Venezia all’Austria – aveva lasciato il passo alle forze imperiali, non senza un pesante riflesso archivistico, come di recente ricostruito da Francesca Cavazzana Romanelli e Stefania Rossi Minutelli.

Tra 1803 e 1805 aveva invece operato a Venezia il tirolese Franz Sebastian Gassler, archivista di Corte a Vienna, con l’incarico di selezionare preziosi documenti veneziani, che, stipati in ben 44 casse, avevano preso la strada della capitale austriaca. Dopo la pace di Presburgo del 1805, che, per la sconfitta dell’Austria, aveva ricondotto le province venete nell’orbita francese, ne era stato ordinato il ritorno a Venezia, riuscito solo in parte. Caduto a sua volta nel 1814 il regime napoleonico, anche quanto era stato nel frattempo immancabilmente trasportato dai francesi a Milano e Parigi aveva dovuto essere restituito.

Nel 1815, come si è visto, rientrata l’Austria, venne infine creato l’Archivio generale. Due anni dopo ebbe inizio il trasferimento dei documenti, dalle varie sedi occupate in precedenza, verso i monumentali corridoi del complesso conventuale dei Frari, sito accanto al maestoso edificio della chiesa di Santa Maria Gloriosa. Già appartenuto ai frati Minori e successivamente indemaniato, esso fu prescelto quale sede della neonata istituzione proprio per le dimensioni notevolissime (quasi un’isola nel cuore del sestiere di San Polo), perfettamente idonee a ospitare un grande archivio.

Da allora, quello che dopo l’ingresso delle province venete nel Regno d’Italia, nel 1866, prese il nome di Archivio di Stato di Venezia, si è sempre mantenuto ai Frari. I fondi archivistici conservativi, invece, hanno subito nel tempo notevoli traversie e non pochi spostamenti in luoghi esterni, principalmente proprio a causa di eventi bellici. In tali frangenti ebbe modo di emergere, come meglio si vedrà, l’abnegazione del personale dell’Archivio e dei funzionari archivisti, che, con la guida e l’impulso di figure insigni di direttori, si prodigarono per assicurare la conservazione e la consultazione pubblica di quanto affidato alla loro tutela. Dopo il 1866, infatti, anche l’Archivio veneziano – in precedenza “gelosamente” custodito dai governanti austriaci – si aprì alla sempre più ampia frequentazione dei cultori di “patrie memorie”, e la necessità di assicurare che la fruizione delle carte da parte degli interessati potesse avvenire con la massima disponibilità venne avvertita come un dovere civico imprescindibile per l’Istituto.

Già nel corso del XIX secolo la guerra si fece sentire ai Frari. Nel 1849, in piena stagione risorgimentale, mentre Venezia (insorta contro la dominazione austriaca il 22 marzo dell’anno precedente, resasi indipendente e organizzatasi con un proprio governo provvisorio, presieduto da Daniele Manin) sopportava il durissimo assedio delle armate imperiali, l’Archivio venne pesantemente coinvolto dal continuo bombardamento che i generali asburgici inflissero alla città, tirando dalla gronda lagunare. Fu infatti colpito da ben 84 proiettili, i quali però fortunatamente – a causa del modesto potenziale degli ordigni dell’epoca – non uccisero i dipendenti, né danneggiarono i documenti.

Un successivo conflitto, la III Guerra d’indipendenza, provocò nel 1866 la definitiva estromissione delle forze austriache dal Veneto e il passaggio di Venezia all’Italia: ma per l’Archivio tale transito non fu affatto indolore. Approfittando della stasi delle operazioni, che precedette la ormai definitiva cessione, infatti, nel luglio di quell’anno le autorità imperiali organizzarono l’asportazione dai Frari di intere serie archivistiche antiche, ritenute di estrema importanza “politica” oltreché storica («quali risguardassero specialmente l’Istria, la Dalmazia e l’Albania ex venete, ed i paesi di Aquileja, Gorizia e Marano; e per giunta le relazioni e i dispacci di Germania, di Polonia e di Svizzera, e quant’altro sarebbesi indicato in un elenco da rilevarsi»), che, nonostante la benemerita resistenza degli archivisti veneziani (tra i quali si distinse il ventottenne Bartolomeo Cecchetti, che subì per questo addirittura l’arresto e il carcere: dieci anni dopo sarebbe divenuto direttore dell’Archivio), furono imballate sotto la guida di un benedettino boemo e partirono alla volta di Vienna, da dove fecero parziale ritorno solo dopo il trattato di pace, a seguito dei lavori di un’apposita commissione, composta, tra l’altro, da archivisti.

Seguì un lungo periodo di pace e di operosi ordinamenti all’interno dell’Archivio. Lo scoppio del primo conflitto mondiale, però, nel quale l’Italia entrò a fianco dell’Intesa nel 1915, comportò pesanti ricadute anche per il grande istituto dei Frari. Già nei primi anni di guerra Venezia non era troppo lontana dal fronte, che si estendeva dal Trentino sino al Carso. Dopo lo sfondamento austro-tedesco a Caporetto, avvenuto nell’autunno 1917, la città si trovò addirittura in primissima linea e a rischio di imminente occupazione da parte del nemico: la popolazione civile venne per ordine del Comando di piazza pressoché completamente evacuata. Pure l’Archivio visse allora una condizione quasi disperata, privo di direzione – a causa del concomitante pensionamento dell’anziano Alessandro Lisini – e vuoto di personale (l’archivista Giovanni Aureliano Lanza rilevava, nel novembre di quell’anno, di essere rimasto l’unico dipendente ancora presente nell’immensa sede). Inoltre, ebbero inizio pesanti bombardamenti aerei austro-ungarici, che, nonostante le limitate capacità offensive degli apparecchi e degli esplosivi allora disponibili, recarono notevoli danni e distruzioni ai monumenti. Il Ministero dell’Interno, dal quale l’Archivio dipendeva, aveva stabilito d’altra parte sin dal 1915 che i documenti più preziosi venissero posti in sicurezza. La scelta però – vista la ricchezza e la vastità della documentazione custodita ai Frari – si era presentata particolarmente ardua; alcune serie archivistiche di peculiare rilievo erano state spostate subito a Firenze, altre invece ricoverate in quegli ambienti interni alla sede che per lo spessore dei muri e delle volte si sperava fossero più sicuri. Fattasi la situazione, come si è visto, estremamente critica, ulteriori casse cariche di documentazione furono poi inviate a Torino, ove trovarono spazio a Palazzo Madama, tra la fine del 1917 e i primi giorni del 1918. Cessato finalmente lo spaventoso conflitto, i materiali (stivati in ben sette vagoni ferroviari contenenti quasi 500 bauli di documenti e migliaia di mappe catastali) rientrarono; fecero ritorno anche i funzionari e gli altri impiegati, ed entro il settembre 1919 l’Istituto – per l’immenso impegno degli archivisti (la morte prematura di Giuseppe Dalla Santa, nel 1920, fu da alcuni ricondotta allo sforzo eccessivo profuso nell’opera di riordino) – poté riprendere la normale attività. La conclusione della guerra, vittoriosa per l’Italia, comportò inoltre la possibilità di ottenere da Vienna la restituzione della documentazione che ancora non era stata riportata a Venezia. Nella commissione allo scopo appositamente costituita si distinse l’opera dell’insigne storico e docente Roberto Cessi, archivista a Venezia dal 1907 al 1922.

La situazione di pericolo per l’Archivio e i tentativi di tutelarne l’integrità da possibili danneggiamenti si ripeterono pressoché identici all’aprirsi della seconda conflagrazione mondiale, nel settembre 1939. L’Italia prese le armi accanto alla Germania nazista, contro Francia e Inghilterra, nel giugno 1940; l’esperienza del 1915-18 aveva messo in evidenza come neppure Venezia, nonostante il suo immenso valore storico-artistico fosse universalmente risaputo e riconosciuto, potesse considerarsi al sicuro dall’offesa aerea. A partire dall’estate di quell’anno, pertanto, come previsto dalla normativa e dalle disposizioni vigenti, gli edifici di pregio monumentale vennero ricoperti da strutture di protezione e sacchetti di sabbia, mentre tele, opere e statue amovibili vennero riposte in luoghi sicuri. Dopo il 1942, quando ormai le sorti del conflitto andavano facendosi preoccupanti per l’Italia, le autorità preposte ritennero di collocare ancora una volta al riparo per quanto possibile la documentazione dell’Archivio di Stato di Venezia. Oltre ventimila tra filze e registri furono allora imballati dal personale e collocati in circa 700 casse, «chiuse, incordate e sigillate»; esse vennero riposte in anfratti naturali – non troppo umidi – che esistevano nei Colli Euganei, in provincia di Padova, nei pressi di Praglia e Battaglia Terme. Ma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 la situazione precipitò, poiché la terraferma veneta si presentava più esposta al movimento delle truppe e all’attacco degli aerei alleati rispetto al centro storico veneziano, che si era intuito sarebbe stato invece rispettato. I documenti furono allora riportati nella città lagunare, con grande sacrificio dei dipendenti dell’Archivio, che nel frattempo erano molto diminuiti per il richiamo alle armi e che militavano in parte in campi opposti e avversi, con la Repubblica Sociale o con le forze antifasciste. Le grandi serie deliberative dei consigli della Serenissima vennero allora ripartite tra la sede dei Frari e Palazzo Ducale. Anche se i più distruttivi bombardamenti strategici risparmiarono effettivamente Venezia, tuttavia essa non rimase indenne dall’azione di gruppi di cacciabombardieri o di singoli velivoli anglo-americani. Una potente esplosione, che nel marzo 1945 coinvolse un bastimento tedesco ancorato in Stazione marittima (non troppo lontana dai Frari), provocò con lo spostamento d’aria la distruzione dei vetri di tutte le finestre dell’Archivio, esponendo così la documentazione all’azione delle intemperie, del freddo e anche della neve.

Al tacere delle armi, per l’Archivio di Stato tornò il sospirato momento della normalità: a partire dal maggio 1945 i materiali furono infatti tutti riordinati nella sede dei Frari, al fine di renderli immediatamente consultabili per gli studiosi, che non mancarono – appena la rete internazionale dei trasporti lo consentì – di accorrere numerosi, da ogni paese d’Europa e anche da oltreoceano.

Note

Francesca Cavazzana Romanelli, Stefania Rossi Minutelli, Archivi e biblioteche, in Storia di Venezia. L’Ottocento e il Novecento, a cura di M. Isnenghi e S.J. Woolf, 2, Roma 2002, pp. 1081-1122
Anna Calia, Il “liber graecus” dell’Archivio di Stato di Venezia e la diplomazia veneziano-ottomana in lingua greca tra XV e XVI secolo, «Byzantion», vol. 82 (2012), pp. 17-55
Francesca Cavazzana Romanelli, Storia degli archivi, storia della cultura. Suggestioni veneziane, Venezia 2016
Paolo Preto, voce Cecchetti, Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 23, Roma 1979, pp. 227-230
Girolamo Dandolo, Il benedettino Beda Dudik all’Archivio Generale di Venezia. Memoria documentata, Venezia 1866
Stefania Saviane, scheda Le spoliazioni negli archivi veneti, in I secoli di Venezia. Dai documenti dell’Archivio di Stato, mostra documentaria virtuale, a cura di A. Pelizza, 2021-2022
Paola Benussi, scheda XIII.11 e Andrea Pelizza, scheda XIII.12, in Farsi storia. Per il bicentenario dell’Archivio di Stato di Venezia 1815-2015, a cura di R. Santoro, P. Benussi, A. Pelizza, Verona 2015, pp. 262-264

 

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